1 ottobre 2013

"I re del gioco dei re" di Piero Fabbri


"Quando vedi una buona mossa,
cercane una migliore."


Sono passati giusto quarant’anni dall’ultima volta che una sfida scacchistica è finita sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo.
 Correva l’anno 1972, e tra agosto e settembre l’americano Robert J. Fischer sconfisse il campione del mondo in carica, il sovietico Boris Spasskij, in quel di Reykjavík, Islanda, con il punteggio di 12,5 a 8,5. I due contendenti erano scacchisti di grandezza assoluta: l’americano, in particolar modo, era un fenomeno così eccezionale che molti lo considerano tutt’ora il giocatore più forte della storia degli scacchi. Ciò non di meno, non era tanto per il valore dei contendenti che il mondo seguiva con apprensione l’esito della sfida, quanto per l’inevitabile inserimento dell’evento nello scontro che a quei tempi marcava quasi ogni tipo di competizione: la Guerra Fredda.
A guardare le cose a quasi mezzo secolo di distanza, è un po’ triste e un po’ buffo ricordare il modo di vivere le cose di allora. I ragazzini crescevano con l’idea della conquista dello spazio, e per quanto fosse ben chiaro anche a loro che il mondo era diviso in due grandi blocchi, quello degli USA e quello dell’URSS, pensavano di star vivendo un momento cruciale della storia dell’umanità. I razzi salivano sbuffando dalle rampe spaziali, sparivano nel blu del cielo della Florida o del Kazakhistan, e la sensazione era quella che si stesse davvero partendo verso un viaggio grandioso e inarrestabile. Attaccati alle televisioni in bianco e nero che avevano una risoluzione che adesso viene usata al massimo per mascherare i dettagli di immagini che non si vogliono mostrare, avevano la stessa sensazione di coloro che, sul molo, agitano i fazzoletti salutando i fortunati passeggeri delle navi che vanno verso un altro continente. Adesso, invece, è abbastanza evidente che era solo una complicata competizione sportiva: un po’ come i cento metri piani alle Olimpiadi, solo che il filo di lana era posto sulla superficie della Luna, ed era oggettivamente complicato arrivare a tagliarlo.
Era un periodo in cui era normale aspettarsi di morire sotto una bomba atomica: con le due superpotenze  indaffarate a costruire bombe sempre più potenti, l’idea che prima o poi sarebbe scoppiato il disastro finale era considerata tutt’altro che folle. Si può dire che era considerata allora assai più probabile di quanto lo sia adesso l’idea di saltare per aria per causa di un attentato di qualche forma di integralismo religioso. Però i ragazzini guardavano lo stesso i razzi, e leggevano fantascienza, e magari si iscrivevano poi alle facoltà scientifiche non tanto per avere la sicurezza di un lavoro, quanto per la convinzione di poter partecipare attivamente ad una sorta di missione mondiale di progresso.
Quali che siano le ragioni vere e profonde di un evento considerato d’importanza cruciale, la risonanza è sempre tale da creare conseguenze, strascichi, affiliazioni: e gli scacchi trovarono un periodo d’oro, anche se il campionato del mondo del 1972 rientrò, forse senza neppure che gli scacchisti se lo aspettassero, pienamente nella logica dei Due Blocchi. Da moltissimo tempo i campioni di scacchi erano tutti oltrecortina, e il gioco ad alti livelli considerato quasi un monopolio del blocco orientale. Del resto, in Unione Sovietica e in molti paese del Patto di Varsavia gli scacchi si insegnavano anche nelle scuole, e non c’era dilettante occidentale che non fosse colto da un sacro timor panico se per caso finiva di fronte ad una scacchiera contro un coetaneo russo o ungherese. Ciò non di meno, da qualche anno era salita nell’empireo degli scacchi la stella di Bobby Fischer, che fin da ragazzino aveva mostrato di saper trasformare i sedici pezzi affidatigli in una autentica macchina da guerra. L’idea che un americano potesse rompere, da solo, tutto il prestigio consolidato della scuola sovietica era un’occasione troppo ghiotta per non essere vissuta come “l’incontro del secolo”, e l’incontro Fischer-Spasskij diventò rapidamente, dal punto di vista mediatico, una specie di una nuova corsa alla Luna. Visto che non è salutare vedere chi sa far scoppiare meglio le bombe H, vediamo chi lancia gli astronauti più lontano. Visto che non è ancora il caso di vedere se salta prima New York o Mosca sotto un fungo atomico, vediamo chi è più bravo a spostare alfieri e cavalli sulle sessantaquattro caselle.
Certo, a rendere credibile il tutto contribuì anche il fatto che gli scacchi sono da sempre considerati uno sport altamente intellettuale: anzi, un vero e proprio indice di intelligenza. Questo è uno dei punti di contatto che hanno con la matematica; gli uni e l’altra possono piacere o no, ma è del tutto comune l’opinione che un matematico e uno scacchista debbano avere un cervello di prim’ordine. Inoltre, la radice di entrambe le attività sembra essere di natura logica, rigorosa, quasi meccanica: nessuno nega che “cervelli di prim’ordine” abbondino anche in molti altri campi; basti pensare alla genialità che occorre per diventare un grande musicista, o un medico di fama, o un luminare del diritto. Ma in qualche modo sembra che i meccanismi alla base del “gioco dei re[1]” coincidano con quelli della matematica, e molto spesso ci si aspetta dai matematici che siano dei buoni giocatori di scacchi.
In realtà, questa coincidenza di interessi è forse meno frequente di quanto ci si potrebbe a prima vista aspettare. Ci sono molti matematici che amano gli scacchi, e certo molti scacchisti trovano la matematica piacevole e divertente, ma è probabile che nella realtà l’intersezione tra le due discipline sia meno ampia di quella che si è usualmente portati a credere.  Ciò non di meno, la più famosa leggenda sugli scacchi ha una natura matematica.

Appare per la prima volta nel 1256, raccontato da Ibn Khallikan: il gran visir Sissa ben Dahir batté agli scacchi[2] il suo Re Shiran, e questi gli chiese cosa volesse in premio per la partita vinta. Sissa fece la sua celeberrima richiesta: un chicco di grano per la prima casella, due per la seconda, quattro per la terza, otto per la quarta, e così via. Richiesta apparentemente modesta, ad un primo sguardo: ma che diventava, appena liberata la dirompente energia della progressione geometrica, del tutto insostenibile[3].
La relazione è comunque molto debole: in fondo, dal punto di vista matematico, avrebbe funzionato benissimo anche se i due avessero giocato a dama, o sulla spirale da novanta caselle del gioco dell’oca; anzi, in questo caso l’esplosione dei chicchi di grano sarebbe stata ancora più clamorosa. Un’altra relazione tra matematica e scacchi è il sistema di calcolo della forza dei giocatori; inventato da un professore di cibernetica, il “Punteggio Elo” è diventato un mezzo di valutazione della forza dei giocatori così diffuso che sono davvero molti gli sport che lo hanno fatto proprio: quasi tutti i ranking mondiali di sport o giochi che prevedono sfide individuali si basano sul sistema inventato per gli scacchi. Quando il papà di Facebook,  Mark Zuckerberg, decise di infestare il sistema informatico di Harvard con il suo “Facemask”, programma che consentiva agli studenti di decidere quale fosse la più bella tra due fanciulle presentate a video, chiese ad un compagno di corso l’algoritmo del sistema Elo, per valutare al meglio i risultati dei “duelli”.
 È quindi probabile che per cercare una relazione convincente tra matematica e scacchi (e salvare così il luogo comune che li vede affratellati) occorra scavare soprattutto nel novero degli scacchisti. Il guaio è che gli scacchi, come tutti i giochi e gli sport[4], sono soprattutto una attività per giovinastri: quelli molto bravi cominciano a fare sfracelli fin da ragazzini, e di solito non perdono troppo tempo a studiare le funzioni ellittiche, quando scoprono che  riescono a guadagnarsi da vivere facendo (e vincendo) tornei. Bobby Fischer si guadagnò l’attenzione del mondo scacchistico quando, alla tenera età di tredici anni, strapazzò quello che era con ogniprobabilità il più forte giocatore americano del tempo, Donald Byrne[5]. Diventò Grande Maestro all’età di quindici anni e allo stesso tempo il più giovane candidato della storia al Campionato del Mondo. 
Bobby Fischer
È insomma evidente che per giocatori del genere non si possono trovare relazioni tra gli scacchi e la matematica o altre discipline, per la buona ragione che non esiste niente, nella loro vita, al di fuori degli scacchi. È solo in quest’ottica che si riesce a capire – almeno in parte – la profonda incapacità di vivere una vita “normale” per Fischer e per altri che, come lui, non riuscivano ad uscire davvero dal limite quadrato delle 8x8 caselle. Quando divenne campione del mondo era assolutamente il più forte giocatore del pianeta, e di gran lunga: ma era anche una persona che faceva molta fatica ad inserirsi nel mondo.
Il suo avversario, Boris Spasskij, era assai più normale. Anche lui si mise in mostra da giovane, anche se non quanto il suo più celebre avversario americano. 
Boris Spassky
Era diventato campione del mondo nel 1966, e il celebre match del 1972 fu la sua seconda (e ultima) difesa ufficiale del titolo: la FIDE aveva stabilito che i match con il titolo mondiale in palio andavano disputati ogni tre anni. Tre anni durante i quali si sarebbero tenuti dei regolari tornei, detti “Zonali” e “Interzonali”, avrebbero infine ridotto la rosa dei possibili sfidanti ad un numero di otto. Questi si scontravano poi in quello che si chiamava “Torneo dei Candidati”, il vincitore del quale era finalmente quello che poteva sfidare il campione del mondo in carica con il titolo in palio. Spasskij era stato tra i Candidati per tre volte, prima di conquistare l’accesso allo scontro decisivo: e ci tornò ancora per altre quattro volte, dopo la sconfitta contro Fischer. Le regole della Federazione erano molto rigide, ma tutto sommato necessarie: per molto tempo gli scontri con il titolo mondiale in palio erano stabilite dal campione in carica, ed erano quasi sempre spudoratamente sbilanciate a favore del detentore. Fischer, che probabilmente avrebbe potuto vincere per molti anni ancora qualsiasi avversario anche seguendo le norme prescritte, era però davvero fuori dal mondo. Colto un po’ da mania di grandezza e un po’ da manie di persecuzione, si rifiutò di mettere il suo titolo  conquistato nel 1972 in palio secondo le regole federative, e così nel 1975 perse d’ufficio il Campionato del Mondo.
Anatoly Karpov


A succedergli fu Anatolij Karpov. Spasskij era stato il Campione del Mondo numero dieci, Fischer l’undicesimo, e Karpov fu pertanto il dodicesimo campione del mondo “ufficiale” della storia. L’aggettivo “ufficiale” serve soprattutto a chiarire che è solo da un certo momento ben preciso della storia, nel 1886, che il concetto di “Campione del Mondo di Scacchi” ha un significato formalmente preciso. In precedenza, una gran quantità di giocatori che hanno fatto la storia degli scacchi e i cui nomi assurgono a vere e proprie leggende per gli appassionati, non possono fregiarsi del titolo ufficiale. Per raccontare la storia del gioco, molti storici degli scacchi elencano nomi di quelli che si possono considerare “campioni del mondo non ufficiali” di scacchi, o quantomeno i giocatori più forti del loro tempo. Tra questi “non campioni del mondo” si trovano una pletora di leggende degli scacchi: giocatori che illuminano i sogni dei ragazzini che cominciano a muovere legname sulla scacchiera, perché sono in gran parte gli eroi del cosiddetto “periodo romantico”, quando un giocatore era considerato tanto più bravo quanto più spettacolare erano le sue partite, con combinazioni vertiginose e sacrifici dal travolgente senso estetico. Il diciottesimo e il diciannovesimo secolo abbondano di personaggi che, seppure non possono vantarsi del titolo “ufficiale”, perché a quei tempi non v’erano regole consolidate, hanno lasciato i loro nomi indelebilmente scritti nella storia del gioco. Legall de Kermeur, il cui “matto” più famoso è stato messo in versi; Philidor, che mostrò il ruolo essenziale dei pedoni; i francesi Deschapelles e La Bourdonnais, che sui tavolini dei caffè parigini dispensavano scacchi matti a chiunque fosse tanto folle da sfidarli; l’inglese Staunton, che oltre ad aver dato il nome alla forma dei pezzi ancora oggi più diffusa, era anche un giocatore di forza eccezionale. Soprattutto, verso la fine dell’Ottocento, lasciarono la loro impronta immortale il tedesco Adolf Anderssen e l’americano Paul Morphy: non c’è libro di scacchi che non ricordi le loro migliori partite, dense di combinazioni da capogiro. Morphy, in particolare, aveva in comune con Fischer la nazionalità e la giovane età, e il sentirsi un po’ unico rappresentante del suo emisfero, visto che a quei tempi il centro del mondo degli scacchi era l’Europa; soprattutto, aveva in comune il fatto, riconosciuto in maniera unanime dagli storici, di essere stato per un certo periodo il giocatore più forte del suo tempo.
Subito dopo Morphy, tanto per rendere la sua figura ancora un po’ più tragica, i campioni del mondo diventano davvero “ufficiali”, e il primo a potersi fregiare del titolo fu Wilhelm Steinitz, fortissimo giocatore austriaco (poi divenuto americano). 
Wilhelm Steinitz
Steinitz conservò accuratamente il suo titolo dal 1886 al 1894: il suo merito maggiore, cosa che lo rende un po’ antipatico alle già menzionate schiere di ragazzini affascinati dal gioco combinatorio denso di sacrifici e di salti mortali, fu quello di dimostrare, sia in teoria sia in pratica, che un gioco “scientifico”, metodico e razionale era più conveniente del gioco romantico che aveva spopolato per tutto il diciannovesimo secolo.
Se si vuole andare in cerca di glorie nazionali, per noi italiani è sufficiente scavare solo un po’ di più nel passato. Gli scacchi arrivano in Europa più o meno nel Cinquecento, portati dagli arabi. Il primo testo importante sul gioco è scritto da uno spagnolo, Ruy Lopez, il cui nome è immortalato in una delle più celebri “aperture”, che da lui viene ancora detta “spagnola”. Dalla Spagna all’Italia: tra Cinquecento e Seicento i più forti giocatori del mondo sono tutti italiani: Leonardi da Cutri, Paolo Boi, Alessandro Salvio, Gioacchino Greco rinnovano le strategie del gioco, e le loro tracce si trovano nella “partita italiana”, nel “gambetto Greco”, e soprattutto nella “difesa siciliana”, che è probabilmente tuttora la partita più giocata nei tornei in risposta all’apertura del pedone di re da parte del Bianco. Dopo di loro, anche per una diatriba sulle regole, la penisola è rimasta un po’ isolata dagli scacchi[6].  

Sia come sia, quando Karpov diventò campione del mondo molti erano insoddisfatti, perché non lo ritenevano forte quanto Fischer. Certo è che il giovane Anatolij, a differenza di Bobby, prese sul serio la sua carica e giocò come un matto, partecipando a tornei su tornei, e mostrando a tutti che era davvero un campione. Difese il titolo con successo nel 1978 e nel 1981 contro Korchnoj, e poi avvenne il patatrac. Le regole della FIDE prevedevano match al meglio di un certo numero di partite da svolgersi con il limite di due ore e mezzo per 40 mosse.
Garry Kasparov
 Quando arrivò sulla scena mondiale un altro grande fenomeno come Garry Kasparov, ci si dovette confrontare col fatto che la formula del “match” poteva non essere la più efficace. Gli scacchi erano ormai diventati davvero una sorta di scienza, e gli scacchisti migliori qualcosa di molto simili a dei calcolatori infallibili. Il primo del molti match “K-K”, nel 1984, vide un iniziale vantaggio di Karpov, poi una difesa arcigna di Kasparov, e si arrivò a contare la bellezza di 40 partite patte. Il presidente della FIDE, alla fine, annullò il match per eccessiva lunghezza. Ne vennero fuori un bel po’ di polemiche. Nel 1985 Kasparov riuscì a battere Karpov, ma entrò in polemica con la FIDE, e giunse al punto di fondare una nuova federazione di giocatori di scacchi professionisti. Per più di dieci anni si ebbero, più o meno come nella boxe, due diversi campioni del mondo: Kasparov per la sua nuova federazione, Karpov per la FIDE. Quel che è peggio è che la FIDE aveva certo più prestigio storico, ma era abbastanza evidente che Kasparov era ormai più forte di Karpov: Garry è considerato da molti il giocatore più forte di tutti i tempi, e il suo punteggio Elo ha superato quello che sembrava inarrivabile di Fischer.
Negli ultimi anni, le cose sembrano essere appianate: i criteri per la selezione dei candidati al titolo sono cambiati, e soprattutto sono cambiate anche le regole delle partite. Oltre agli scontri classici che concedono due ore e mezzo per 40 mosse sono previste anche partite lampo e semilampo, e incontri che prevedono un incremento di tempo a disposizione dopo ogni mossa effettuata. In questa maniera Kasparov, che pure è rimasto nell’opinione comune il giocatore più forte dal 1985 ai primi anni Duemila, ha ceduto il titolo che è stato appannaggio di giocatori certo meno noti al grande pubblico, come Khalifman, Kramnik, Kasimdzhanov[7], Ponomariov, Topalov. Al momento, il campione del mondo in carica riunisce le due federazioni, e ha portato il titolo nella patria d’origine degli scacchi: Viswanathan Anand è infatti indiano.
Sono diciannove gli uomini che possono fregiarsi del titolo, al momento. Ma la nostra caccia alla relazione tra matematica e scacchi non ha dato grandi esiti, nella ricerca tra gli scacchisti degli ultimi quarant’anni. Forse avremo più fortuna cercando all’indietro.
Tra la fine della seconda guerra mondiale e il 1972, il dominio è stato sempre sovietico. Nel 1948 si era di nuovo senza un campione in carica, e il torneo che sancì il nuovo titolare si tenne nel 1948: a vincerlo fu  Mikhail Botvinnik. 
Mikhail Botvinnik
Questo è un nome che, in effetti, apre qualche spiraglio interessante nella nostra ricerca: se da un certo punto in poi i campioni del mondo sono infatti degli autentici professionisti, senza altro mestiere possibile che quello di scacchista, Botvinnik ha anche altre frecce al suo arco. Oltre a giocare a scacchi (e a giocare decisamente bene: è il solo giocatore che abbia vinto il titolo tre volte diverse) Botvinnik è stato anche ingegnere elettronico e pioniere dell’informatica. Mettete insieme le tre cose (ingegnere, informatico e scacchista) ed è inevitabile ritrovarsi fra le mani uno dei nomi più importanti nella ricerca dei calcolatori in grado di giocare a scacchi. È verosimile che, in una storia globale degli scacchi, la notizia più clamorosa del periodo a cavallo tra il XX e il XXI secolo non siano tanto le incredibili prestazioni di Kasparov, quanto il fatto che il più grande giocatore del mondo (e, come detto, secondo alcuni il più grande giocatore della storia) sia stato battuto da un calcolatore elettronico. Deep Blue riesce a battere il campione del mondo nel 1997, e tutto sommato, buona parte di questa rivoluzione è dovuta proprio all’ingegnere sovietico con gli occhialini tondi. Ma forse si trattava di una sorta di derby fratricida, dal punto di vista di Botvinnik: se è stato lui a far fare enormi progressi ai computer che giocano a scacchi, è stato sempre lui a fondare una scuola per ragazzini particolarmente dotati nel gioco. E nella sua scuola sono cresciuti sia Karpov che Kasparov. L’idea di Botvinnik di insegnare a giocare a scacchi ad una macchina appare del tutto banale al giorno d’oggi, quando quasi ogni microchip è in grado di battere la grande maggioranza degli esseri umani che provino a sfidarli, ma a quel tempo era considerata pura follia. Proprio il gioco degli scacchi veniva considerato spesso l’esempio principe contro la possibilità di raggiungere una vera e propria “intelligenza artificiale”: i computer venivano considerati come degli spettacolari abachi elettronici, in grado di compiere un numero spaventoso di operazioni in breve tempo, ma comunque non in grado di fare delle vere e proprie scelte “intelligenti”[8].
Di certo, Botvinnik intelligente lo era, anche dal punto di vista agonistico. Fu campione del mondo dal 1948 al 1963, ma non consecutivamente: perse il titolo nel 1957 contro Smyslov, lo riconquistò in un incontro di rivincita; lo perse di nuovo contro uno dei giocatori più brillanti del periodo, Mikhail Tal[9], nel 1960, e lo rivinse ancora nel 1961, sempre in rivincita. La FIDE, proprio per mettere una pezza alla strana abitudine dell’ingegnere, eliminò a quel punto la clausola del “diritto di rivincita” di cui Mikhail sapeva fare così buon uso.
Smyslov e Tal


 A togliere definitamente il titolo all’ingegnere russo fu uno scacchista armeno, Tigran Petrosian, nel 1963. Capelli scuri e faccia grintosa, restò famoso per il suo stile di gioco “a cassaforte”, che in qualche modo doveva assomigliare a quello che nel calcio è chiamato “catenaccio”. Del resto, il periodo in cui il catenaccio calcistico diventò famoso coincide grossomodo con il regno di Petrosian.      
Regno che comunque durò abbastanza poco: tre anni dopo, alla sua prima sfida con il titolo in palio, Petrosian cedette la corona di Campione del Mondo a Boris Spasskij: tre anni dopo Petrosian, dopo aver vinto il Torneo dei Candidati, riaffrontò Spasskij nel match mondiale, e perse di nuovo.
La ricerca dei matematici nel periodo che va dalla fine della guerra al 1972 è stata un po’ più fruttuosa di quella fatta nel periodo da 1972 ad oggi, grazie a Botvinnik, ma non si può dire che sia stata del tutto gratificante. Non resta che spingerci ancora più indietro nel secolo. E fare la conoscenza con quelli che sono probabilmente le personalità scacchistiche più affascinanti della storia.
Il torneo del 1948 si era reso necessario perché il campione in carica prima dello scoppio del conflitto era morto nel 1946: si trattava di Aleksandr Alekhine, che aveva conquistato il titolo nel 1927 ed è passato alla storia come un altro (l’ennesimo) papabile per il titolo di più grande scacchista di tutti i tempi. Era matto quasi quanto Fischer, e con una personalità non meno sconvolgente. Faceva incetta di quasi tutti i vizi possibili, aveva un caratteraccio, ma sapeva disegnare sulla scacchiera delle partite assolutamente incredibili. Nel gioco di determinare chi sia stato il più grande scacchista di tutti i tempi, gli elementi da considerare sono davvero molti, vista l’impossibilità di mettere davvero i candidati tutti di fronte ad una scacchiera (senza tener conto dell’impossibilità di valutarli correttamente in funzione del periodo in cui sono vissuti: la teoria scacchistica ai tempi di Ruy Lopez era decisamente meno sviluppata di quella odierna). Capacità teorica, abilità in torneo, visione strategica, predisposizione naturale, e molto altro ancora. In queste classifiche parziali, Alekhine figura quasi sempre al primo posto nella sezione “il più forte attaccante”. Difese il suo titolo due volte con successo contro Bogoljubov, sottovalutò lo sfidante del 1935, l’olandese Max Euwe, e si presentò al match spesso totalmente sbronzo e certo non adeguatamente preparato. Euwe non era certo alla sua altezza, ma non era uno che si potesse prendere poi troppo sottogamba, e vinse il titolo mondiale. Era però un gran signore, e concesse immediatamente la rivincita ad Alekhine: questi si preparò un po’ meglio, e nel 1937 si riprese il titolo con ampio margine. Euwe era uno scacchista abbastanza insolito, ben lontano dal divismo che affliggeva tutti i grandi campioni del tempo. Per la sua estrema correttezza non mantenne a lungo il titolo mondiale, ma si guadagnò la presidenza della FIDE, che tenne onorevolmente per molti anni.
Non c’era però dubbio che tra i due il giocatore più forte fosse Alekhine: gli aneddoti su di lui si sprecavano, e probabilmente era davvero un tipo non facile da affrontare neanche in occasioni non scacchistiche. Del resto, quasi nulla della vita di Alekhine poteva dirsi non scacchistica: anche i suoi due gatti siamesi, vere e proprie star scacchistiche per luce riflessa, si chiamavano Scacco e Scaccomatto.
Un altro elemento che rese celebre Alekhine resta il fatto che si scontrò per il titolo mondiale con un altro scacchista che può essere annoverato tra i più grandi di tutti i tempi: Josè Raul Capablanca. Se la diatriba su chi sia stato il più forte giocatore di scacchi è infinita, se non c’è dubbio che a guardare i punteggi Elo il match Kasparov-Karpov è stato probabilmente quello di maggior impatto, se è indubbio che dal punto di vista mediatico l’incontro Fischer-Spasskij non ha rivali, è quasi altrettanto certo che per gli amanti degli scacchi è difficile immaginare un match per il titolo mondiale più significativo di quello che nel 1927 vide opposti Alekhine e Capablanca.
Di Capablanca si dice spesso che è stato l’unico vero “genio naturale” degli scacchi. Imparò il gioco da solo, a quattro anni, guardando le partite del padre. Correva l’anno 1892, e il quattrenne Raul sembra che rimase colpito anche dall’aver visto nelle strade Steinitz e Cigorin, che proprio nella sua città, L’Avana, stavano disputando il campionato del mondo[10]. Cominciò a giocare seriamente a nove anni: batté in diverse partite  il campione nazionale cubano all’età di tredici, e sconfisse il più forte giocatore delle Americhe, il fortissimo Frank Marshall, quando ne aveva venti: in quell’occasione confessò di non aver mai aperto in vita sua un libro di teoria scacchistica.
Jose Raul Capablanca

L’incontro con Alekhine del 1927 lo vedeva inizialmente favorito, perché nessun giocatore sembrava avere le sua capacità di fronte alle trentadue figurine bianche e nere: lo stesso Alekhine, che tutto era meno che modesto (e neanche tanto sportivo) confessò che nel 1927 non pensava che sarebbe riuscito a sconfiggerlo.
Sia come sia, la ricerca di matematici nel novero dei campioni del mondo sembra non aver avuto buon esito. Eravamo rimasti a contare Spasskij come il decimo della lista, e risalendo all’indietro abbiamo annoverato Petrosian come nono, Tal ottavo, Smyslov settimo, l’ingegner Botvinnik come sesto. Prima di lui regnava sulla scacchiera Alekhine, quarto, perché c’è da tener conto dell’interregno di Euwe, quinto. Il sublime Capablanca è pertanto il terzo campione del mondo ufficiale della storia; sappiamo già che il primo a fregiarsi del titolo è stato Steinitz, e quindi tutte le nostre speranze sono ormai concentrate sul Campione del Mondo numero due, colui che deve aver sconfitto il primo scacchista dell’era moderna, Steinitz, ed essere stato sconfitto dal più grande genio naturale degli scacchi, Capablanca.
L’ultima tessera da scoprire è comunque una tessera di grande valore: secondo molti critici e storici, si tratta davvero del “più grande” giocatore di scacchi di tutti i tempi: non “forte” come Fischer o Kasparov, forse; non travolgente come Alekhine, non naturalmente dotato come Capablanca, non stratega sopraffino come Botvinnik, ma con una quantità e qualità di caratteristiche che secondo molti[11] lo rendono “il più grande” giocatore di scacchi di tutti i tempi. Anche perché si tratta del giocatore che è restato campione del mondo in carica per più tempo, senza interruzioni, dal 1894 al 1921; del giocatore che, pur avendo perso contro Capablanca[12], ha avuto una carriera che è durata circa quarant’anni praticamente senza altre macchie significative. E, per finire, di un giocatore che non si limitava a fare il giocatore di scacchi: le sue note biografiche lo segnalano anche come filosofo, ad esempio: ma, soprattutto, come matematico. E matematico abbastanza in gamba da aver lasciato traccia di sé negli annali della scienza. 
Emanuel Lasker

Emanuel Lasker nasce a Berlinchen, in quello che allora era il Regno di Prussia ed oggi è territorio polacco, il 24 Dicembre 1868.
Di famiglia ebrea, è figlio del cantore[13] della locale sinagoga. Viene presto mandato a studiare a Berlino, dove un compagno di scuola gli insegna a giocare a scacchi. Verso i quindici anni  diventa abbastanza bravo da guadagnare qualche soldo nelle sfide ai caffè (destinazione storica del gioco, come si è visto), al punto che la famiglia comincia a preoccuparsi un po’ troppo del tempo che Emanuel dedica agli  scacchi piuttosto che a studiare. Si preoccupano al punto di decidere di prendere provvedimenti, e costringono il figlio a cambiare scuola: ma si sa, quando il Fato è contrario, non ci sono decisioni genitoriali che tengano. Accade infatti che nel nuovo liceo il preside sia anche presidente del club scacchistico locale e, come se non bastasse, che il professore di matematica non sia altro che il campione cittadino di scacchi: diventa a questo punto del tutto inevitabile che Emanuel Lasker faccia dei rapidi progressi sia negli scacchi sia nella matematica.
A differenza dei campioni moderni, Lasker non gioca solamente a scacchi: vi si dedica regolarmente e certo con una passione e un impegno eccezionali, ma nel contempo porta avanti i suoi studi. Si dedica alla matematica e alla filosofia, e lo fa in università di tutto rispetto: Berlino, Göttingen, Heildeberg. Non si riesce a capire facilmente come potesse eccellere facilmente in tutti i campi, fatto sta che tra il 1891 e il 1893 se ne resta a lungo a Londra per partecipare ai più importanti tornei scacchistici, e trova il tempo anche di andare in America a vincere il prestigiosissimo torneo di New York, dove evita accuratamente di perdere anche una sola partita. Già che era in America, dove il campione del mondo Steinitz aveva eletto la sua residenza, e visto che i suoi risultati scacchistici glielo consentivano, acconsentì a sfidare il campione del mondo in carica in un match da tenersi in tre città americane: Philadelphia, New York e Montreal. Ma probabilmente considerò che gli avanzava del tempo e dei luoghi da visitare, visto che nel 1893 tenne una serie di lezioni sulle Equazioni Differenziali all’università Tulane di New Orleans.
Nel 1894 strapazzò uno Steinitz ormai vecchiotto, e divenne il secondo campione del mondo della storia degli scacchi. Tornò in Germania, e fu vittima di una febbre tifoide che lo debilitò davvero molto; nonostante la malattia, si presentò al “più grande torneo di scacchi del XIX secolo”, quello che si tenne ad Hastings nel 1895, arrivando terzo. Appena riuscì a rimettersi del tutto dalla malattia difese con successo il titolo contro Steinitz e vinse con percentuali incredibili i tornei di Pietroburgo, Norimberga e Parigi. Anche se vinceva come nessuno aveva mai fatto prima, c’era chi sosteneva che Lasker non partecipasse ad un numero elevato di tornei, per essere il giocatore più forte del suo tempo: e in parte i critici avevano ragione. La causa era sempre la solita, Emanuel non faceva il giocatore di scacchi a tempo pieno: nel 1895 pubblica due articoli su Nature, e nel 1900 presenta a Erlangen la sua tesi di dottorato sulla convergenza delle serie. Il suo relatore era Max Noether, il papà di Emmy[14], e la tesi abbastanza importante da essere poi ritenuta degna di pubblicazione dalla Royal Society.
Una delle critiche che più spesso si muovono a Lasker come campione del mondo di scacchi è che imponesse delle regole abbastanza capestro nei confronti degli sfidanti pretendenti al titolo. Il comportamento non è certo encomiabile, ma il nostro ha almeno un paio di scusanti: la prima è che questo era il comportamento abituale dei campioni del mondo; quando Max Euwe si disse disposto a concedere ad Alekhine la rivincita senza porre condizioni né di tempo né di regole, il mondo scacchistico fu sorpreso dalla sua correttezza. La seconda è che Emanuel faceva matematica.
Nel 1905, quindi poco prima della sua difesa del titolo contro Marshall nel 1907 (8 vittorie, 7 patte, nessuna sconfitta: il match mondiale più a senso unico della storia), introduce il concetto di “ideale primario”, una varietà che sta agli anelli polinomiali nella stessa ragione in cui i numeri primi stanno agli interi. Il teorema che proponeva fu poi esteso da Emmy Noether, ed è adesso noto come Teorema Lasker-Noether, e gli anelli commutativi di tipo R sono adesso noti come “Anelli di Lasker”.  Probabilmente soddisfatto dei suoi risultati matematici, si dedica con maggiore impegno agli scacchi, e difende il titolo, oltre che con Marshall nel 1907, anche nel 1908 contro Tarrasch, nel 1910 contro Janowsky e già che c’è anche contro Schlecter. Per ingannare il tempo nel 1911 si sposa, si trasferisce a Berlino, e pianifica gli incontri per i futuri match col titolo in palio. Prevede di scontrarsi contro Akhira Rubinstein, stella nascente del periodo, e si prevede già che il vincente del match dovrà poi vedersela con Capablanca. Ma arriva la Prima Guerra Mondiale, e si ferma quasi tutto.
Dopo la guerra e il dopoguerra, si trova l’accordo (anche economico) per rimettere il titolo il palio. Lasker ha cinquantadue anni, e il giovane Capablanca riesce ad averne facilmente ragione. Emanuel si ritira prima della fine dell’incontro, adducendo problemi di salute. Non negherà comunque mai che Capablanca gli era certamente superiore, in quel momento[15]. Dopo ventisette anni di regno, Lasker cede la corona; che non fosse comunque un tipo da rottamare, lo dimostrò pochi anni dopo, al grande Torneo di New York del 1924: lo vinse raccogliendo l’incredibile percentuale di 80% dei punti disponibili, lasciando a Capablanca il secondo posto ed ad Alekhine il terzo. A quel punto, forse definitivamente soddisfatto, si dedicò soprattutto al bridge e al go.
Il go lo affascinava tantissimo; il bridge gli riusciva abbastanza facile da diventare un elemento della squadra nazionale tedesca. I giochi gli sono sempre piaciuti, ed era famoso per inventarne di nuovi[16].
I Campioni del Mondo ufficiali

Ebreo tedesco, dovette scappare dalla Germania negli Anni Trenta per questioni razziali. Vagò un po’  tra l’Europa e la Russia, e infine si trasferì a New York, dove si spense nel 1941. Pur non avendo solo giocato a scacchi, nella sua lunga e piena vita, è stato probabilmente colui che più ha cambiato la natura del gioco. Curiosamente, da un matematico professionista ci si potrebbe aspettare che la sua impronta sugli scacchi sia prevalentemente analitica e “scientifica”, mentre è vero tutto il contrario: l’analista perfetto era Steinitz, del quale si diceva che giocasse le sue partite considerando l’incontro dal punto di vista strettamente logico e meccanico, come se le figure si muovessero da sole sulla scacchiera. E Steinitz venne detronizzato da Lasker, che invece era il perfetto giocatore da torneo, che combatteva contro un giocatore, e non contro i suoi pezzi. Di Lasker si diceva che non giocava la mossa migliore, ma quella che più infastidiva l’avversario; per lungo tempo, si è addirittura pensato che giocasse appositamente delle mosse non particolarmente forti in apertura solo per indispettire la preparazione teorica degli avversari; analisti recenti e più accurati sono invece convinti, oggi, che conoscesse bene le analisi che gli avversari facevano delle aperture, ne trovasse una falla, e ci si ficcasse dentro con gioia.
Non era certo un romantico come Morphy o Anderssen, ma aveva una sua forte estetica del gioco: una sua famosa sequenza d’attacco prevede il sacrificio di entrambi gli alfieri sull’arrocco avversario, e quando la giocava era davvero improbabile che l’avversario potesse avvantaggiarsi del materiale regalato. Disse una volta “prendete due giocatori molto accorti e molto attenti; otterrete una partita precisa, esatta, senza errori; la partita più noiosa del mondo”.
 Lui giocava contro i giocatori, non contro il gioco. Fumava sigari, e spesso infastidiva gli avversari soffiandogli il fumo addosso. Atteggiamento non troppo sportivo, ma probabilmente efficace. Trasformò l’approccio scientifico di Steinitz in uno sport anche fisico tra due concorrenti; visto che è stato il campione del mondo più longevo, è verosimile che la sua trasformazione avesse avuto ragione d’essere.
Ma il sospetto è anche un altro: e cioè che il suo innato senso del rigore scientifico aveva un’altra destinazione, che era la matematica.
Gli scacchi, per lui, erano certo un gioco e una professione, ma non tutta la vita.










[1] Gli Scacchi sono detti “Gioco dei re e re dei giochi”.
[2] Visto che la leggenda si perde nella notte dei tempi, è verosimile che la partita in questione non fosse esattamente una partita di scacchi moderni, ma più probabilmente di Chaturanga o Shatranj, antenati del gioco moderno.
[3] C’è chi si è divertito a calcolare a quanto corrispondano, in pratica, i 264-1 chicchi richiesti: ponendo che trovino posto cento chicchi in un centimetro cubo (ipotesi estremamente ottimista), il carico totale di grano si dovrebbe stipare in due miliardi di vagoni merci. Un trenino lungo circa mille volte l’equatore.
[4] Sulla possibilità o meno di considerare gli scacchi uno sport, non ci soffermeremo troppo. È una diatriba che va avanti da decenni, e ognuno ha la sua irremovibile convinzione. Certo è che, per quel che può contare, un torneo impegnativo costa spesso diversi chili di peso ai partecipanti, e soprattutto che la FIDE (Fédération Internationale des Échecs, l’ente supremo mondiale degli scacchisti) ha delle rigorose normative antidoping.
[5] È comunque bene non considerare questo un evento comune: quella partita è nota oggi con il modesto soprannome di “Partita del Secolo”.
[6] Ma è possibile che ritorni alla ribalta proprio nel prossimo futuro. Fabiano Caruana ha doppia nazionalità, americana e italiana, ma è un po’ più italiano che americano, e soprattutto gioca per i colori italiani. È diventato Grande Maestro ancor prima di Fischer, ha vinto il titolo mondiale juniores, ed è attualmente tra i cinque giocatori più forti al mondo. Vedremo…
[7] Karpov, Korchnoj, Kasparov, Khalifman, Kramnik, Kasimdzhanov: è del tutto evidente che se il vostro cognome non inizia per “K” avete poche speranze di diventare campioni del mondo. Speriamo che Caruana accetti di cambiarsi in Karuana.
[8] Anche dal punto di vista della mera enumerazione delle possibili partite giocabili, è facile vedere che il metodo “esaustivo” che si può applicare a giochi semplici non è praticabile per gli scacchi. Le partite possibili sono finite, perché una regola prevede che non possano effettuarsi più di 50 mosse senza effettuare una presa, perché a quel punto la partita è dichiarata patta. Anche tenendo conto di questo, comunque, le partite possibili sono circa 2,5x10126 (no, non abbiamo verificato il calcolo di persona), numero che è enormemente più grande di quello stimato delle particelle elementari dell’Universo.
[9] Curioso che uno scacchista abbia un nome che è del tutto confondibile, graficamente, con una mossa: “Tal” è quasi indistinguibile da “Ta1” (Torre in a1): ancora più notevole che “a1” è effettivamente la casa di partenza di una torre bianca.
[10] Era la quarta difesa del titolo mondiale da parte di Steinitz, che vinse.
[11] Ad esempio, questa è l’opinione di Mike Fox e Richard James, autori di “The Complete Chess Addict”. Ma non sono certo i soli.
[12] Sconfitta che gli deve essere costata davvero molto: dopo il match è rimasto in ospedale per diversi mesi. E c’è da considerare che Capablanca all’epoca era al massimo della sua forza e aveva 33 anni, il nostro ne aveva ormai 53.
[13] La nostra fonte (inglese) lo definisce “cantor”. Non sappiamo se sia l’analogo del titolo di Bach o una carica religiosa.
[14] Protagonista di uno dei primissimi compleanni di RM, “Questione di attributi”, RM50, Marzo 2003. Abbastanza curiosamente, secondo Wikipedia (inglese), il relatore di Lasker sembra essere stato addirittura Hilbert.
[15] “Ho conosciuto tanti giocatori di scacchi, ma un solo genio: Capablanca”, disse il vecchietto.
[16] Come il lettori di RM del resto ben sanno: la sua creazione più famosa, il “Lasca”, si è meritata lo Zugzwang! in RM84, Gennaio 2006.


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